Anche il cibo segue le mode
Anche il cibo, come l’abbigliamento o l’arredamento, è soggetto alle mode. Cambiano i gusti, cambiano le abitudini, cambiano le priorità, e così anche i ristoranti si adeguano, trasformando i loro menù per rimanere al passo coi tempi. È come se ogni decennio segnasse una linea di demarcazione tra il vecchio e il nuovo mondo della ristorazione.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’esplosione di pizza e panini “gourmet”, rivisitazioni continue di piatti della tradizione, proposte di degustazione in formato miniatura, e una tendenza generale a incartare tutto con termini altisonanti. Il “finto fritto”, ad esempio, è un piatto che si presenta come fritto, ma che fritto non è — cotto al forno con farine di riso e oli nebulizzati, per dare l’illusione della croccantezza senza un grammo di grasso. Il risultato? Spesso un piatto più bello che buono, costruito per stupire su Instagram più che per soddisfare il palato.
In molti ristoranti, ormai, sembra che conti più la scenografia che il gusto, più il “concept” che la sostanza. Mi è capitato spesso di sedermi in locali dove lo chef executive è una celebrità, più impegnato tra social, interviste e apparizioni televisive che ai fornelli. Cucine pensate per stupire, porzioni microscopiche servite su ardesia o pietra lavica, nomi lunghi quanto una poesia: “Emulsione di burrata su cialda di farro con aria di prezzemolo”. E io, onestamente, rimango con la nostalgia di una buona vecchia pasta al pomodoro.
Dopo una fase iniziale di curiosità, confesso di aver fatto una scelta precisa: oggi preferisco i ristoranti classici e tradizionali. Quelli con il tovagliato bianco, il servizio impeccabile, il cameriere che ti consiglia il vino con genuina competenza. Amo quei posti che rispettano la cucina per com’è nata, per come si è tramandata nelle case, nelle osterie, nei pranzi della domenica in famiglia. Una cucina che non ha bisogno di essere reinventata, perché ha già detto tutto — e l’ha detto bene.
Mi mancano le penne alla vodka, sparite come un ricordo degli anni ’80. Era un piatto simbolo, semplice e cremoso, con quel leggero sentore di liquore che dava carattere senza stonare. E che dire del cocktail di scampi, servito nel calice con lattuga e salsa rosa, raffinato e fresco? O del vero vitello tonnato alla piemontese, non quello reinterpretato con tataki di manzo e spuma di tonno, ma quello con la carne cotta lentamente e la salsa densa fatta in casa, come vuole la tradizione.
Negli ultimi anni la cucina si è frammentata in mille sottocategorie: destrutturata, etnica, molecolare, fusion, creativa, a km zero, di ricerca, multisensoriale. Tutte etichette che spesso nascondono la mancanza di una cosa sola: la semplicità.
Quando ero giovane, c’erano ristoranti favolosi. Luoghi senza pretese dove si mangiava benissimo, con porzioni generose, un buon vino della casa, e un servizio familiare. Oggi, molti di quei posti sono scomparsi, travolti dai cambiamenti come la Prima Repubblica. I nuovi locali sono belli, certo, ma a volte senz’anima, costruiti per un pubblico veloce, distratto, che cerca la novità più che la qualità.
Alla fine, guardandomi intorno, penso che tutto sommato fosse meglio quando era peggio. Perché nella semplicità c’era verità, nella tradizione c’era affetto, e nel cibo, quello vero, c’era una storia che non aveva bisogno di essere riscritta.
0 commentaires:
Enregistrer un commentaire